Vivevamo poveramente all'estremità del villaggio.
Abitavo con la mamma, una sorella maggiore e la nonna.
La nonna andava attorno con un vecchio mantello sopra una sottana logora e con la testa avvolta in un lacero fazzoletto.
La nonna mi voleva bene e mi compativa più della mamma.
Mio padre era soldato.
Dicevano che beveva molto e che per punizione era stato mandato sotto le armi.
Ricordo come in sogno che talvolta veniva a trovarci, in licenza.
La nostra casupola era angusta e sostenuta al centro da un palo, e ricordo che una volta mi arrampicai su quel palo, scivolai e andai a sbatter la fronte contro una panca.
Da allora mi è rimasta sulla fronte la cicatrice.
La nostra casupola aveva due finestrelle, e una era sempre coperta di stracci.
Il cortile era angusto e senza ripari.
Nel mezzo c'era un vecchio trogolo.
Avevamo una vecchia cavalla sfiancata; mucche non ne avevamo, ma solo due pecorelle malandate e un agnello.
Io dormivo sempre con quell'agnello.
Mangiavamo pane e acqua.
Non c'era nessuno che lavorasse; mia madre si lamentava di dolori alla pancia, la nonna aveva sempre mal di testa e stava continuamente vicino alla stufa.
Lavorava soltanto mia sorella, ma solo per sé e non per la famiglia: si comperava abiti belli e si preparava a sposarsi.
Mi ricordo che mia madre stava sempre peggio, e poi mise al mondo un bambino.
Mammina la sistemarono nell'ingresso.
La nonna si fece prestare dal vicino della farina di miglio e mandò lo zio Nefëd a cercare il prete.
E mia sorella andò a chiamare gente per il battesimo.
Venne la gente e portarono tre grossi pani.
I parenti prepararono la tavola coprendola con la tovaglia, poi portarono gli sgabelli e un grosso recipiente pieno d'acqua.
Tutti sedettero al loro posto.
Quando giunse il prete, il compare e la comare si fecero avanti e dietro a loro rimase la zia Akulina col bimbo tra le braccia.
Ebbero inizio le preghiere.
Poi tolsero le fasce al bambino, il prete lo prese e lo mise nell'acqua.
Io mi spaventai e mi misi a gridare:
- Da qui il bambino!
Ma la nonna si arrabbiò e disse:
- Sta zitto, se no te le prendi!
Il prete immerse per tre volte il piccolo e poi lo consegnò alla zia Akulina.
La zia lo ravvolse nelle fasce e lo portò nell'ingresso, alla mamma.
Poi tutti sedettero a tavola, la nonna riempì due ciotole di "kasa", ci versò su dell'olio e servì gli ospiti.
Allorché tutti ebbero finito di mangiare, si alzarono da tavola, ringraziarono la nonna e se ne andarono.
Io mi avvicinai alla mamma e le chiesi:
- Mamma, come lo chiamate?
Mia madre mi rispose:
- Come te.
Il bimbo era magrolino; aveva le gambette e i braccini sottili e non faceva che strillare.
Di notte, a qualunque ora mi svegliassi, lo sentivo gridare, e la mamma lo cullava e gli cantava la ninna nanna.
Tossiva, ma continuava a cantare.
Una notte, svegliatomi, sentii che la mamma piangeva.
La nonna si alzò e disse:
- Che hai, che Iddio ti benedica!
Rispose la mamma:
- Il bambino è morto.
La nonna accese il fuoco, lavò il piccolo, gli mise una camiciola pulita, una cinturina alla vita e lo distese sotto le immagini sacre.
Quando fu giorno, uscì di casa e andò dallo zio Nefëd.
Lo zio portò due vecchie assicelle e preparò una piccola bara.
Fece come una cassettina e vi accomodò dentro il bambino.
Poi la mamma andò a sedersi là accanto e con voce sottile cominciò a gemere e a lamentarsi.
Infine lo zio Nefëd pigliò sotto il braccio la cassettina e la portò a seppellire.
Ci fu un po’ di gioia da noi soltanto quando sposammo mia sorella.
Un giorno erano venuti a casa nostra certi contadini che portarono pani tondi e vino.
E offrirono il vino a mia madre. Mia madre bevette.
Poi zio Ivan affettò un pane e glielo diede. Io stavo in piedi accanto al tavolo e mi venne una gran voglia di mangiarne un pezzo.
Tirai la mamma verso di me e glielo dissi in un orecchio.
La mamma si mise a ridere e zio Ivan disse:
- Che cosa vuole?
Un pezzo di pane?
E me ne tagliò una gran fetta.
Io lo presi e me ne andai nel ripostiglio.
Là ci trovai mia sorella, che subito cominciò a interrogarmi:
- Che dicono di là quei contadini ?
Io risposi:
- Bevono vino.
Essa scoppiò a ridere e disse:
- Sono venuti a combinare il mio matrimonio con Kondraska.
Venne il giorno della celebrazione dello sposalizio.
Tutti si alzarono presto.
La nonna accese la stufa, la mamma impastò i dolci, e la zia Akulina lavò la carne per cuocerla.
Mia sorella calzò le scarpe nuove, indossò un vestito rosso, mise in testa un fazzoletto nuovo, e stava lì senza far niente.
Poi, quando la casa fu riscaldata, anche la mamma si vestì da festa, e molta gente incominciò a venire.
La casa era piena.
Poi si fermarono dinanzi al nostro cortile tre carri a due cavalli, con le sonagliere.
E sull'ultimo carro stava il fidanzato Kondraska in caffettano
nuovo e un cappello alto in testa.
Il fidanzato scese dal carro ed entrò in casa.
Fecero indossare a mia sorella una pelliccia nuova e la condussero dinanzi allo sposo.
I fidanzati si sedettero a tavola, e le donne si misero a cantare in loro onore.
Poi si alzarono, dissero una preghiera e uscirono di casa.
Kondraska fece salire mia sorella su un carro, e lui salì su un altro.
Tutti quanti presero posto, si segnarono e partirono.
Io rientrai in casa e mi sedetti alla finestra in attesa che il corteo degli sposi tornasse.
Mia madre mi diede una fettina di pane, io la mangiai e subito mi addormentai.
Mi svegliò la mamma, dicendo:
- Arrivano!
Mi diede il matterello e mi fece sedere a tavola.
Entrò nella stanza Kondraska con mia sorella, seguiti da molta gente, più numerosa di prima.
Anche in strada c'era gente e tutti, dalla finestra, ci guardavano.
Zio Gherasim era il compare; si accostò a me e mi disse:
- Vattene via di lì!
Io mi spaventai e feci per andarmene, ma la nonna mi disse:
- Mostragli il matterello e chiedigli: sai cos'è questo?
Così io feci.
Allora zio Gherasim mise dei soldini in un bicchiere, lo riempì di vino e me l'offrì.
Io presi i bicchiere e lo diedi alla nonna.
Allora noi ci alzammo d tavola e gli altri si sedettero.
Poi incominciarono a portare vino, gelatina di vitello, carne lessa, e si misero a cantare e a ballare.
A zio Gherasim offrirono da bere: egli ingoiò un sorso e disse:
- Questo vino sa di amaro.
Allora mia sorella prese Kondraska per le orecchie e incominciò a baciarlo.
Canti e balli durarono a lungo; alla fine se ne andarono tutti, e Kondraska si portò mia sorella a casa sua.
Dopo di allora riprendemmo a vivere ancora più miseramente.
Vendemmo il cavallo e l'ultima pecora, e molto spesso non avevamo neppure il pane.
Mia madre andava a prenderlo in prestito dai parenti.
Dopo poco anche la nonna morì.
Ricordo che la mamma piangeva e si lamentava:
- Madre mia cara!
A chi mi hai lasciata, misera tapina che sono?
A chi hai abbandonato la tua infelice creatura?
Dove prenderò consiglio?
Come farò a vivere?
E così continuò a lungo a piangere e a lamentarsi.
Un giorno ero andato sulla strada maestra con dei ragazzi per sorvegliare i cavalli, ed ecco che vedo un soldato che avanza con un sacco sulle spalle.
Si avvicina a noi ragazzi e chiede:
- Di che villaggio siete, ragazzi?
Gli rispondiamo:
- Siamo di Nikolskoe.
Chiede il soldato:
- Vi abita lì una certa Matrëna, moglie di un soldato?
Gli rispondo:
- Vi abita, sì: è mia madre.
Il soldato mi fissa e chiede:
- Lo hai mai veduto il tuo babbo?
Rispondo:
- È soldato, non l'ho mai veduto.
Allora il soldato mi dice:
- Su, andiamo, accompagnami a casa di
Matrëna: ho portato per lei una lettera di tuo padre.
Gli dico:
- Quale lettera?
E lui risponde:
- Andiamo, lo vedrai!
E io:
- Sta bene, allora andiamo!
Il soldato s'incamminò con me, ma così in fretta che io non riuscivo a stargli al passo.
Ed ecco che arrivammo a casa.
Il soldato fece la preghiera e disse:
- Salve!
Poi si tolse il pastrano, si sedette presso la stufa e cominciò a guardarsi attorno, poi disse:
- Dunque, è tutta qui la famiglia?
Mia madre era confusa e non parlava: guardava il soldato.
Disse allora questi:
- E la mamma dov'è?
E si mise a piangere.
Allora la mamma gli corse vicino e incominciò a baciarlo.
E anch'io mi arrampicai sulle sue ginocchia e presi a frugargli nelle tasche.
Egli smise di piangere e sorrise.
Poi venne gente, mio padre salutò tutti e disse che ora aveva avuto il congedo per sempre.
Quando il bestiame fu ricondotto dal pascolo, arrivò anche mia sorella e abbracciò il babbo.
Ma il babbo domandò:
- Di chi è figlia questa bella giovane?
La mamma scoppiò in una risata e disse:
- Non ha riconosciuto sua figlia!
Allora il babbo la richiamò presso di sé, la baciò di nuovo e chiese come vivesse.
Poi la mamma andò a cuocere una frittata e mandò mia sorella a
prendere del vino.
Mia sorella tornò portando una bottiglietta, tappata con della carta, e la posò sulla tavola.
Chiese il babbo:
- Cos'è questa roba?
E la mamma rispose:
- Vino per te.
E il babbo, di rimando:
- No, sono ormai cinque anni che non bevo più: portami la frittata, piuttosto!
Fece la sua preghiera, sedette a tavola e incominciò a mangiare.
Poi il babbo disse:
- Se non avessi smesso di bere, non sarei diventato sergente e non avrei portato niente a casa; invece, grazie a Dio...
E tirò fuori dal sacco un borsellino pieno di denaro e lo diede alla mamma.
La mamma fu tutta contenta e si affrettò ad andarlo a riporre.
Poi, quando tutti furono usciti, babbo si coricò sulla panca in fondo alla stanza e mi fece sdraiare al suo fianco, mentre la mamma si distese ai nostri piedi.
E per un bel pezzo, quasi sino a mezzanotte, essi parlarono tra loro.
Poi io mi addormentai.
Alla mattina la mamma disse:
- Oh, non ho legna!
E il babbo rispose:
- Un'accetta c'è?
- Ce l'ho, ma cattiva; è tutta dentellata.
Il babbo si mise le scarpe, prese l'accetta e uscì in cortile.
Io gli corsi dietro.
Il babbo strappò dal tetto una pertica, la appoggiò sul ceppo, sollevò l'accetta e con forza la ridusse in pezzi; portò tutto in casa e disse:
- Eccoti la legna, accendi la stufa.
Oggi andrò a vedere se trovo da comperare del legname per fabbricare una casetta.
Occorrerà comperare anche una mucca.
Gli rispose la mamma:
- Oh, ma ci vorrà molto denaro!
E il babbo:
- Lavoreremo.
Questo contadinotto cresce...
E mi indicò col dito.
Il babbo recitò le preghiere, mangiò un po’ di pane, si vestì e disse alla mamma:
- Se ci sono delle uova fresche, fammele cuocere sotto la cenere per pranzo.
E se ne andò.
Rimase a lungo prima di tornare.
Chiesi alla mamma di lasciarmi andare a cercarlo, ma essa non me lo permise.
Io volli uscire lo stesso, ma lei non cedette e mi picchiò.
Io allora mi sedetti sulla stufa e mi misi a piangere.
In quel momento entrò in casa il babbo e chiese:
- Perché piangi?
Gli risposi:
- Volevo andarti a cercare, ma la mamma non mi ha lasciato e per di più mi ha picchiato.
E presi a piangere ancora più forte.
Il babbo si mise a ridere, si avvicinò alla mamma e finse di picchiarla, mentre le diceva:
- Non devi picchiare fedja, non devi picchiare fedja!
La mamma, per finta, si mise a piangere, il babbo scoppiò a ridere e disse:
- Tu e fedja siete facili alle lacrime, piangete per niente!
Poi si sedette a tavola, mi chiamò accanto a sé e gridò:
- Su, mamma, portaci il pranzo: Fedjuska e io vogliamo mangiare!
La mamma ci portò "kasa" e uova, e noi ci mettemmo a mangiare.
La mamma disse:
- E il legname, l'hai comperato?
Rispose il babbo:
- Sì, l'ho comperato: ottanta rubli di tiglio bianco che pare vetro.
Offriremo ai contadini da bere e, forse, una domenica mi aiuteranno a portarlo con i carri.
Da allora cominciammo a vivere bene.