- Dio grande degli dèi! -
dicea la Mosca in odio alla Formica,
che ardiva in grado gareggiar con lei.
- E come mai può darsi
che un animal sì vile e sì minuscolo
alla figlia dell'aria osi eguagliarsi?
Io frequento i palagi e siedo a tavola
con Giove e bevo il sangue dell'altare,
mentre questa imbecille tisicuzza
in tre giorni non mangia una pagliuzza,
che fatica tre giorni a trasportare.
È forse a te concesso,
piccina, di sedere in testa ai re?
E di volar in seno del bel sesso
com'è concesso a me?
Io do spicco al candore naturale
delle belle donnine innamorate,
che non credono d'essere acconciate
senza almeno una mosca artificiale;
ma tu, sciocca, con tutti i tuoi granai
sempre una miserabile sarai -.
- Or che avete adoprato la linguetta, -
proruppe la pacifica formica,
- è ben che anch'io vi dica
che nei palagi siete maledetta:
che il sangue dell'altare
non è poi quel nèttare che pare;
che con egual discernimento e festa
dei re volate e dei somari in testa,
finché la troppa lunga seccatura
morte improvvisa spesso vi procura.
In quanto al dir che siete l'ornamento
delle belle donnine civettuole,
è un giuoco di parole,
ché poca gloria io vedo in verità,
se un po' di taffettà
a te somigli oppur somigli a me,
e merito non c'è
se della Mosca il nome gli si dà.
E non si chiaman mosche i parassiti
dei ricchi e dei conviti?
Dunque, amica, non far più la saccente,
e non parlar sì forte.
Mosche e Mosconi, razza maledetta,
non stanno nelle sale della Corte:
e questo sol vi aspetta
che al cader delle foglie
finite poi di gel, di fame e in doglie.
Tranquilla in casa mia
allora io men vivrò,
con pena e con fatica
per valli e per montagne non andrò,
ché la prudenza è di fortuna amica.
Vorrei che tu potessi in tal maniera
la falsa gloria scerner dalla vera.
Ma il tempo passa: il mio
magazzino non empio a ciarle inutili
e nemmen la dispensa. Or dunque addio -.