La zia racconta:
Dietro l'imposta di una finestra della nostra casa, un passero aveva fatto il nido e vi aveva deposto cinque ovetti. Io e le mie sorelle avevamo guardato il passero mentre portava dietro quell'imposta ora una pagliuzza, ora una piumetta per costruire il nido. E fummo felici quando il passero ebbe deposto le uova.
Ormai non volava più con le pagliuzze e le piumette, ma rimaneva fermo, accovacciato sul nido.
Un altro passero, ci fu spiegato che uno era il marito e l'altro la moglie, portava alla compagna dei vermi e la nutriva.
Dopo qualche giorno sentimmo venire da dietro l'imposta un pigolio e corremmo a vedere che cos'era successo nel nido dei passeri.
C'erano dentro cinque uccellini nudi, senza ali e senza piume; i loro beccucci erano gialli e molli, e le loro teste erano grosse.
ssi ci sembrarono molto brutti e non ci rallegrammo più: solo di tanto in tanto andavamo a vedere che cosa facevano. La madre spesso si allontanava da loro in cerca di cibo e, quando ritornava, i piccoli passeri spalancavano pigolando i loro beccucci gialli e la madre distribuiva a tutti pezzettini di vermi.
Dopo una settimana i passerotti erano cresciuti, si erano ricoperti di lanuggine ed erano diventati belli; e allora noi tornammo a visitarli più spesso.
Un mattino, guardando dietro l'imposta della finestra, scoprimmo che la madre passera giaceva morta lì. Capimmo che si era posata sull'imposta per passare la notte, che si era addormentata ed era rimasta schiacciata mentre l'imposta veniva chiusa.
Prendemmo la passera e la gettammo nell'erba. I piccoli pigolavano, rizzavano le loro testoline e spalancavano i beccucci, ma non c'era più nessuno che desse loro da mangiare.
Nostra sorella maggiore disse:
- Ecco, ora non hanno più la madre, non hanno nessuno che li cibi: nutriamoli noi!
Tutte contente, prendemmo una scatoletta, la foderammo di ovatta, vi posammo dentro il nido con gli uccellini e portammo tutto di sopra, in camera nostra.
Poi andammo a cercare vermiciattoli, bagnammo del pane nel latte e ci mettemmo ad imboccare i passerotti.
Essi mangiavano bene, scrollavano le testoline, si pulivano i beccucci contro le pareti della scatola ed erano tutti molto vispi.
Così li imbeccammo per tutta la giornata, e ci prendemmo gusto.
Il mattino dopo, quando andammo a guardare nella scatola, vedemmo che il passerotto più piccolino era morto e le sue zampette erano impigliate nell'ovatta.
Lo buttammo via e togliemmo tutta l'ovatta, in modo che non accadesse più che un altro ci restasse impigliato; imbottimmo la scatola di erba e di muschio.
Ma prima di sera altri due passerottini drizzarono le piume, spalancarono il beccuccio, chiusero gli occhi e morirono anche loro.
Dopo due giorni morì anche il quarto, e ne rimase uno solo.
Ci dissero che avevamo dato loro troppo da mangiare.
Mia sorella pianse sui suoi uccellini e volle nutrire l'ultimo da sola: noi ci limitavamo a guardare. L'ultimo della nidiata, il quinto, era allegro, sano e vispo: lo chiamammo Zivcìk.
Questo Zivcìk visse a lungo, tanto che già cominciava a volare e a riconoscere la sua gabbietta.
Quando accadeva che mia sorella gridasse:
- Zivcìk! Zivcìk!
Lui le volava subito incontro, e si appollaiava sulla spalla, sulla testa, su un braccio, e lei gli dava da mangiare.
Poi Zivcìk crebbe e imparò a mangiare da solo. Viveva con noi nelle stanze di sopra; di tanto in tanto volava via dalla finestra, ma sempre ritornava a passare la notte al suo posto, nella scatoletta.
Un mattino non uscì affatto dalla scatola; aveva le penne umide, e lui le arruffava come avevano fatto gli altri passerotti quando stavano per morire.
Mia sorella non si allontanava da Zivcìk, gli stava sempre attorno, ma Zivcìk non mangiava e non beveva.
Rimase malato tre giorni e il quarto morì.
Quando vedemmo che era morto, steso sul dorso, con le zampette rattrappite, tutt'e tre ci mettemmo a piangere così forte che la mamma corse di sopra a vedere cos'era successo.
Quando entrò e scorse sul tavolo il passerotto morto, capì il nostro dolore. Mia sorella per qualche giorno non mangiò, non giocò e continuò a piangere.
Avvolgemmo Zivcìk nei più bei pezzi di stoffa che avevamo, lo mettemmo in una scatoletta di legno e lo sotterrammo in giardino, in una piccola fossa.
Poi sulla tomba costruimmo un piccolo tumulo e vi mettemmo sopra una minuscola lapide.